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Attualità

PRIMA PAGINA- Il centro di Palermo chiude le saracinesche

di Carlo Capotosti -





di ANTONIO SCHEMBRI

Dovrebbero essere aperte e luminose, in linea con l’interesse turistico e culturale che le amministrazioni comunali vorrebbero tenere vivo nei centri storici. Invece, proprio nelle aree urbane a più alta densità di bellezza architettonica, le saracinesche dei negozi restano abbassate. Anzi, il loro numero aumenta, sempre più in sintonia con le note da requiem che accompagnano cupamente le sorti del commercio di prossimità. Fatte le debite differenze tra nord e sud del paese, la crisi che morde e svuota le tasche si traduce in esercizi commerciali che serrano battenti e saracinesche. Anche in zone celebri per lo shopping di tante città italiane: basta percorrere Corso Buenos Aires, a Milano, dove al momento si contano più negozi chiusi con le saracinesche abbassate che aperti; scenario simile nel quadrante di via del Corso, via del Babuino e via Frattina, a Roma; e situazione in progressivo aggravio specialmente nel centro storico di Palermo. Le ragioni sono plurime e collegate. Una è il caro-affitti dei locali commerciali: fattore corresponsabile, nel capoluogo siciliano, della modifica morfologica del centro storico, parte del quale è diventato una ‘cittadella’ del divertimento, fulcro di malamovida. Con il connesso abbandono dei residenti e l’espandersi di un mercato incontrollato: quelli degli affitti brevi, a caccia di turisti basso spendenti. Una situazione che nel capoluogo riguarda anzitutto l’area pedonale di via Ruggiero Settimo: “su questo asse è ormai impossibile trovare immobili commerciali liberi e quelli attualmente occupati vengono pagati con pigioni stratosferiche – dice Giovanni Felice, presidente regionale di Confimprese, associazione di categoria che aggrega 60mila aziende a livello nazionale, di cui 8mila in Sicilia. Lo stesso vale per la via Roma, che oggi è invece un desolante scenario di saracinesche abbassate proprio a causa degli alti canoni d’affitto, a cui fa da contraltare l’ipotesi di una sua futura parziale pedonalizzazione. Ma a potersi permettere quella spesa, di certo, non sarebbero mai i piccoli artigiani e le micro-attività commerciali”. Che, infatti, si estinguono. A esemplificare i canoni fuori portata, il caso di un locale commerciale di 150 metri quadrati, sempre sulla via Roma, il cui proprietario non recede dalla sua richiesta di 3.500 euro al mese, tenendolo sfitto e improduttivo da ormai 15 anni. Secondo l’associazione delle imprese del commercio bisognerebbe che questa branca immobiliare venga calmierata, con quotazioni mensili non superiori ai 2mila euro, comunque già salate per una città come Palermo. “Ma, al momento, – riprende Felice- i proprietari sembrano non percepire le conseguenze di tale scenario”. Nefaste, appunto: perché il commercio di prossimità, languendo e morendo, innesca gravi problematiche sociali. “In assenza di negozi attivi, la percezione di insicurezza nei centri storici tocca sempre di più livelli di emergenza – dice il presidente nazionale di Confimprese Guido D’Amico. Inutile girarci attorno, il caro affitti è una delle cause più serie”. Come venirne fuori, allora? “Una cedolare secca a carico dei proprietari sul reddito prodotto dal loro immobile a destinazione commerciale, risulterebbe di certo conveniente – spiega D’Amico. Sarebbe un rimedio non risolutivo, ma in grado di attenuare il problema. In parallelo si dovrebbe intervenire a sostegno dei commercianti con un credito d’imposta: leva finanziaria che non alimenta liquidità ma risparmio”. La vera chiave di volta, però, sottolineano a Confinmprese, è soprattutto un’altra: il recupero del buon senso da parte dei proprietari: “a che gli serve praticare canoni insostenibili per le aziende, con la conseguenza di ritrovarsi a tenere sfitto l’immobile o di esporsi al rischio di mancati pagamenti da parte delle aziende?”, argomenta Felice. Di recente il governo nazionale ha invitato i sindaci a indire tavoli di mediazione tra commercianti e proprietari immobiliari. Ma più che interventi a livello locale, rimarcano a Confimprese, urge una politica organica da parte del governo centrale. Anche perché parlano pure chiaro altri numeri: quelli legati allo stop al reddito di cittadinanza. “Dallo scorso luglio, nell’area metropolitana di Palermo, – conclude Felice – la perdita di questa misura di contrasto alla povertà da parte di circa12.000 famiglie ha determinato una perdita secca per il commercio di 35 milioni di euro”.