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I SICANI- Vicende pirandelliane alla Regione: Legge con omissis e incesto burocratico

di Redazione -





di MICHELE GELARDI
In tutti i Paesi del mondo i rapporti tra la politica e la burocrazia possono essere descritti mediante l’immagine della mente e del braccio. La decisione appartiene alla mente e l’attività d’apparato ne è lo strumento. In altri termini: la burocrazia è subordinata alla politica. E s’intende che l’organo politico si assume la responsabilità della decisione, apponendo la sua firma al provvedimento amministrativo. Così va in tutto il mondo, negli Stati democratici e anche in quelli tirannici. Sotto questo profilo, cambia poco se l’organo politico è elettivo o nominato dall’alto. Che la sovranità appartenga al popolo o al dittatore, il provvedimento amministrativo è sempre emanato e sottoscritto dall’organo politico, che ne risponde innanzi all’elettorato oppure direttamente al “duce”. Solo nel Belpaese, che brilla per inventiva, la burocrazia è mente e braccio contemporaneamente, mentre la politica, assunte le sembianze di mente ufficiale, funge da braccio ufficioso, dal momento che, in virtù del D. L.vo n. 29 del 1993, il potere di firma appartiene al burocrate. Tra la politica mente-braccio e la burocrazia braccio-mente si instaurano legami torbidi e incestuosi, indecifrabili per il popolo degli ignari.
Nella speciale classifica dei rapporti incestuosi, l’apparato amministrativo della Regione Siciliana si colloca al primo posto, grazie alle leggi n. 10/2000 (la quale introdusse “abusivamente” la terza fascia dirigenziale, sconosciuta al resto dell’Italia) e 20/2003. Queste leggi, nel dare attuazione alla normativa nazionale, hanno ampliato di molto il novero dei burocrati di vertice, investiti del potere di sottoscrivere i provvedimenti amministrativi definitivi. All’insegna del motto “todos caballeros”, pressappoco un terzo dei funzionari regionali ha avuto accesso al ruolo dirigenziale, accentuando l’insana commistione di politica burocratizzata e burocrazia politicizzata. L’iter di approvazione della legge regionale n. 20 è stato travagliato e contorto. Non è facile ripercorrerne le tappe, con la sintesi che richiede un articolo giornalistico. E nemmeno la penna del giornalista è all’altezza del gravoso compito, perché sarebbe necessaria quella di Pirandello. Basta pensare che stiamo parlando di una legge pubblicata con omissis (all’art. 11 co. 5 l. r. 20/2003), interpretata tuttavia come se l’omissis non esistesse. Nella terra di Pirandello, “così è se vi pare”: siamo giunti perfino all’unicum mondiale della legge con “omesso” omissis, ossia omissis al quadrato. Difficile spiegarlo, ma ci proviamo.
Il progetto di legge, nel circoscrivere l’ambito dei funzionari vocati al ruolo apicale della dirigenza, utilizzava l’inciso “appartenenti alle altre due fasce”, per indicare con più precisione gli aventi diritto a diventare “caballeros”. Senonché il Commissario dello Stato ritenne eccessiva l’inclusione della terza fascia, verosimilmente perché non erano ancora maturi i tempi dell’odierna “inclusività” universale, politicamente corretta, e impugnò l’inciso innanzi alla Corte costituzionale. A quel punto l’Assemblea regionale pubblicò la legge nella formulazione manchevole dell’inciso, al cui posto fece bella mostra di sé un meraviglioso omissis, sicché la Corte costituzionale dichiarò cessata la materia del contendere, precisando che mai la Regione Siciliana avrebbe potuto applicare la norma censurata. Di fatto nell’amministrazione regionale, la legge è stata applicata come se l’omissis non esistesse e la “terza fascia” dei dirigenti ha avuto accesso al ruolo apicale. Insomma, l’amministrazione regionale, omettendo l’omissis, in anticipo sui tempi moderni dell’inclusività universale, politicamente corretta, degli uguali e “anche” dei diversi, ha aperto le maglie della dirigenza apicale, ai diversamente omissati, in omaggio a Pirandello.
Gli effetti sull’efficienza amministrativa sono nefasti. La macchina burocratica è ingolfata per sproporzione tra la componente esecutiva e dirigenziale. Inoltre la deresponsabilizzazione dell’organo politico, che si limita agli atti di indirizzo, approfondisce irrimediabilmente il distacco tra gli amministratori e gli amministrati. La ragione è evidente. Il politico, bene o male, risponde agli elettori; gli interessi dei soggetti amministrati non gli sono del tutto indifferenti, cosicché potrebbe essere incline al “fare”, piuttosto che al “non fare”. Ben diversamente il burocrate vive nella turris eburnea del suo ufficio, è disinteressato alle vicende degli amministrati, non ha alcun vantaggio ad esporsi al rischio decisionale, cosicché è molto più incline al “non fare” che al “fare”. Ma se infine il burocrate e il politico si dessero una mano vicendevolmente, per gabbare gli amministrati, rimpallandosi la responsabilità del “non fare”? Certamente l’incestuosa relazione politica-burocrazia è adattissima per questo “gioco delle parti”, di pirandelliana memoria. In questo gioco, vincono sia i burocrati, sia i politici; perdono i cittadini, i cui problemi non vengono risolti. Emblematica la vicenda del lago Arancio, le cui acque hanno una percentuale di alga rossa assolutamente regolare; eppure le sue acque non vengono utilizzate, poiché il politico rinvia e il burocrate non firma.