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La vita difficile di Schifani (mentre la Sicilia affonda)

di Redazione -





di Piero Messina

Schifani e la “vita non facile” del presidente della Regione

Sostiene Schifani che “la vita quotidiana del presidente della Regione Siciliana non è semplice, non è una vita facile, non è una vita in discesa”. E sarà probabilmente questo il cuore del discorso con cui martedì proverà a respingere la mozione di sfiducia cucita dalle opposizioni, una mozione sulla riuscita della quale – diciamolo sottovoce – neppure chi l’ha firmata scommetterebbe un centesimo bucato. Eppure il presidente sente il bisogno di annunciare urbi et orbi che parlerà, che si difenderà, che racconterà al mondo le sue fatiche quotidiane, come un mediano qualsiasi – non certo un Lele Oriali che poi ti vince un Mondiale – mentre tra una nomina da firmare, un deputato da tranquillizzare, un post autocelebrativo da lanciare e un complotto immaginario da denunciare, deve avere davvero giornate estenuanti.

Uno stress che farebbe impallidire un addestramento militare: ci vuole la tempra del titanio per sopravvivere alla sua “vita in salita”, soprattutto in una Sicilia dove l’unico pendio reale sono le classifiche sulla qualità della vita, con l’Isola stabilmente tre o quattro piani sotto il seminterrato: Siracusa penultima, Caltanissetta terzultima, Palermo che festeggia – si fa per dire – un 97° posto come se avesse conquistato il titolo di capitale europea. Questo mentre Istat e Bankitalia continuano a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell’isoletta circondata dal mare blu e, francamente, da poco altro. Neanche un ponte sullo Stretto a sollevare il morale.

La mozione di sfiducia e il fragile campo largo

Ma quando le cose vanno male, si sa, la colpa è sempre altrove: mai del governo, mai di chi dovrebbe amministrare. E allora Schifani, con l’aplomb del martire laico, ha già pronto il discorso per l’Ars, per spiegare perché la Sicilia affonda ma lui invece vola. Martedì 2 dicembre l’Aula discuterà la mozione firmata da Pd, M5S e dall’indomito Ismaele La Vardera: 23 voti, abbastanza per una conferenza stampa, del tutto insufficienti per far cadere un governo. Il cosiddetto “campo largo” – predicato a Roma quanto a Palermo – non ha i numeri per far cadere il governo regionale.

E l’atto di sfiducia è quasi un atto di fede per le elezioni che verranno. Ma da qui al 2027 – sempre che la legislatura non si concluda in anticipo per cause “endogene” – il campo largo del centrosinistra rischia di trasformarsi in un campo minato. Parola di quel Cateno De Luca che ai 23 voti dell’opposizione è pronto a sommare i tre deputati di Sud chiama Nord.

Il partito di Cateno De Luca sulla carta è opposizione ma in pratica, da un anno, ha introdotto una nuova figura nell’alfabeto politico, quella del badante esterno alla maggioranza. In totale, dunque si arriva a 26 voti per la vittoria. Troppo pochi per raggiungere i 36 necessari a chiudere la legislatura. Più che una sfiducia, una seduta di autocoscienza collettiva: le opposizioni diranno quanto ritengono disastroso il governo, il governo dirà quanto ritiene straordinario sé stesso, e alla fine Schifani potrà tramandare ai posteri di aver scalato l’Everest quando in realtà ha appena oltrepassato un dosso artificiale.

Il pallottoliere della maggioranza e il caso DC

Intanto, mentre si prepara il teatrino dell’Aula, lungo l’asse che collega Palazzo d’Orleans a Palazzo dei Normanni è riemerso il pallottoliere, vera reliquia funzionante del potere siciliano. La maggioranza, sulla carta compatta, è nervosa come un gatto sul tetto di lamiera, soprattutto dopo l’emarginazione dei sette deputati della Democrazia Cristiana cuffariana, messi nel freezer in un improvviso slancio di moralità dopo l’inchiesta che ha coinvolto Totò Cuffaro. Per giorni Schifani ha recitato la parte dell’uomo delle istituzioni inflessibile, allergico alle zone grigie, custode irreprensibile della trasparenza. Poi però qualcuno deve aver ricordato che senza quei deputati la sua maggioranza balla come un ferry boat sullo Stretto con mare forza otto.

E, come per incanto, arriva la folgorazione sulla via della sfiducia: i neo democristiani – che peraltro, dopo la cacciata di Cuffaro, avevano subito esibito atto di penitenza, umiltà e sottomissione al presidente – non sono più l’incarnazione del sistema da estirpare, ma risorse preziose da coccolare. Peccato che nel frattempo il governo avesse rinviato sine die le nomine dei presidenti di Iacp, Consorzi universitari ed Enti Parco, tutti incarichi, “cencellianamente” parlando, in quota allo scudo crociato, con o senza Cuffaro. Panico. Serve una mossa. E la mossa arriva puntuale: si convoca d’urgenza una giunta e, miracolosamente, le nomine sbucano come funghi dopo la pioggia. La coerenza si perde per strada, insieme al rigore istituzionale, in qualche cassetto dimenticato di Palazzo d’Orleans.

Le accuse di Micari e la sopravvivenza del governo

In questo clima da suk arriva poi il post al vetriolo di Fabrizio Micari, ex rettore e voce autorevole del campo progressista, che accusa il presidente di aver “comprato” i voti dei deputati DC dopo averli cacciati e demonizzati. Micari sostiene che Schifani, pur di sopravvivere, rinnega le battaglie contro il cuffarismo, dimentica di aver sacrificato gli assessori Albano e Messina – innocenti ma politicamente ingombranti – e si prostra ai voti che fino all’altro ieri bollava come parte del “sistema del malaffare”. Una denuncia brutale e frontale che coglie nel segno: un governo che predica legalità e pratica aritmetica, che difende i principi solo finché non intralciano la sopravvivenza politica.

Fiducia garantita, credibilità in caduta libera

Martedì, con ogni probabilità, Schifani incasserà la fiducia e potrà proclamare con toni solenni che la sua maggioranza è solida, compatta, granitica. Ma sarà vero solo sulla carta. Perché ormai è chiaro che in questa modalità politica “alla siciliana” credibilità, coerenza e autorevolezza sono diventati ingombri fastidiosi, vezzi da sacrificare sull’altare della sopravvivenza personale, delle nomine last minute e dei voti presi a prestito proprio da quel sistema che dice di voler combattere. Recitando, nel frattempo, l’ormai stucchevole mantra della Sicilia che viene prima di tutto. E qui, come ricordava Sciascia, esto es el busilis: non è vero, cari elettori, che la Sicilia viene prima di tutto. È laggiù, affondata tra Scilla e Cariddi, in fondo a tutte le classifiche. E anche la sua politica, purtroppo, non sembra avere alcuna intenzione di risalire.

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