“Quest’opera s’ha da fare” Il Ponte secondo Ferdinando
La prima idea di un ponte sullo Stretto di Messina, fu discussa nel 1840 tra Ferdinando II di Borbone ed alcuni architetti del Regno delle Due Sicilie ma le insufficienti cognizioni tecniche del tempo e la mancanza di adeguate risorse finanziarie bloccarono presto l’iniziativa.
Nel nuovo Stato unitario il dibattito riprese nel 1899 in coincidenza con l’inaugurazione del servizio di ferry boat e nonostante il terremoto del 1908 l’ingegnere Emerico Vismara, amministratore delegato della Società Generale Elettrica della Sicilia, propose nel 1921 un ardito progetto per una galleria sottomarina. Un secolo dopo le più accreditate ricerche scientifiche internazionali e le tecnologie impiantistiche dei ponti in sospensione di ultima generazione garantiscono sicurezza e stabilità ad un ponte che collegando la Sicilia al continente costituirà un’ infrastrutture strategica per trasformare l’ isola in una piattaforma logistica nel cuore del Mediterraneo.
Non da ultimo, il governo di Centro-Destra sembra finalmente crederci davvero e ha destinato su fondi statali la somma di 13 miliardi di euro per rilanciare il progetto e aprire i cantieri già nel 2024. Apriti cielo! Invece di valutare con obiettività questa decisione epocale, suggerendo eventuali modifiche correttive, una campagna mediatica si è sviluppata con inusitata violenza per rifiutare il progetto, sostenendo la sua inutilità per il Mezzogiorno e la sua pericolosità per l’emissione di CO2, per il cambiamento climatico e per le supposte infiltrazioni malavitose nella gestione degli appalti.
Sul “Corriere della Sera” Gian Antonio Stella ha vomitato fuoco e fiamme contro il supposto ecomostro e don Luigi Ciotti, presidente di Libera, è giunto alla conclusione che il ponte non servirebbe ad unire le due coste bensì le “due cosche” con riferimento alla Mafia siciliana e alla Ndrangheta calabrese. In barba ai pareri tecnici più accreditati a livello mondiale la trasmissione “Report” di Ranucci ha rincarato la dose, contestando i calcoli ingegneristici, prospettando catastrofi estreme e giri di tangenti passate presenti e future. Insomma, parafrasando i “bravi” di Manzoni verso don Abbondio, questo ponte non s’ ha da fare.
A nessun costo. Non sono un esperto di transizione ecologica, ma resto convinto dell’importanza delle grandi opere nelle regioni meridionali, le uniche che grazie all’ intervento straordinario dello Stato nel trentennio 1950-1990 avevano dimezzato il divario tra Nord e Sud, prima che la sciagurata abolizione della Cassa del Mezzogiorno e le politiche pubbliche “nordiste” del successivo trentennio avessero devastato l’economia meridionale tornando ad allargare l’originario dualismo territoriale.
Le resistenze sociali alle infrastrutture strategiche non sono una novità e sono il frutto di un radicato antindustrialismo della cultura politica italiana, oggi mascherato da presunte ideologie ecologiste. Ritornano alla memoria le false credenze a cavallo tra Otto e Novecento contro i trafori alpini che avrebbero causato gigantesche valanghe, oppure le insulse argomentazioni contro l’ acquedotto del Sele realizzato tra le due guerre dall’ Ansaldo accusata di esaurire i bacini idrici dell’ Appennino, o ancora la diffusa ostilità contro l’ Autostrada Salerno-Reggio Calabria perché ritenuta inutile in un territorio con incompleta viabilità ordinaria: tutte polemiche pretestuose che per fortuna hanno solo ritardato la modernizzazione del Paese.
Appare ad ogni modo paradossale che l’avversione al ponte provenga in massima parte dagli stessi siciliani che ne saranno i principali beneficiari, con un autolesionismo tipico del vittimismo sicilianista. Il ragionamento “negazionista” sostiene che al posto di tale inutile opera pubblica i finanziamenti statali dovrebbero invece essere destinati alle linee ferroviarie interne, alla viabilità, al risanamento idrogeologico.
L’ esperienza dell’ultimo trentennio smentisce clamorosamente questa previsione, poiché tutti i governi di Centro-Destra, Centro-sinistra e tecnici, da Berlusconi a Prodi, da Monti a Draghi e a Conte hanno rinviato “sine die” il ponte con la vana promessa di opere alternative mai realizzate.
di GIUSEPPE BARONE, già preside alla Facoltà di Scienze Politiche all’Università di Catania