Pronto soccorso siciliani a rischio tilt: agosto di emergenza tra gettonisti, turni scoperti e assenza di visione
In Sicilia l’estate non porta solo caldo torrido e flussi turistici da gestire. Porta con sé, come un’onda che nessuno vuole vedere arrivare, il rischio concreto di una crisi sanitaria sistemica. Il Pronto soccorso, in molti ospedali dell’Isola, è diventato un campo di battaglia dove il personale è ridotto all’osso e ogni turno scoperto è una ferita aperta nel corpo già martoriato della sanità pubblica.
Lo denunciano con toni lucidi e senza sconti Davide Faraone, vicepresidente nazionale di Italia Viva, e il professore Antonio Craxì, già ordinario di Gastroenterologia, in un’analisi che è al tempo stesso grido d’allarme e atto d’accusa. La questione è chiara: il divieto nazionale di ricorrere ai medici gettonisti nei Pronto soccorso, per quanto giustificato da esigenze di trasparenza e razionalizzazione, rischia in Sicilia di tradursi in un collasso operativo. Non per il principio ,che è corretto , ma per la tempistica scellerata e l’assenza di alternative immediatamente praticabili.
Il dato che più colpisce è questo: oltre il 60% dei turni nei Pronto soccorso siciliani è garantito dai gettonisti, con punte dell’80% in strutture chiave come Villa Sofia-Cervello a Palermo. Numeri che non ammettono interpretazioni. Numeri che raccontano di un sistema dipendente da soluzioni tampone, che nel momento in cui vengono ritirate, lasciano solo il vuoto. E il vuoto si chiamerà agosto 2025, quando l’onda d’urto della riforma si abbatterà su ospedali già stressati dall’aumento stagionale dei ricoveri (+30% negli accessi) e dal personale in ferie. Enna, Caltanissetta, le isole minori rischiano chiusure parziali dei reparti, mentre i tempi di attesa nei PS potrebbero toccare punte di 60 ore. È il collasso annunciato, previsto, ma non evitato. Nel frattempo, si continua a ignorare l’elefante nella stanza: i 210 milioni di euro spesi in Sicilia dal 2019 al 2024 per pagare medici a chiamata avrebbero potuto garantire contratti stabili per almeno 1.500 camici bianchi. Ma si è preferito l’emergenza strutturata, il precariato pianificato, l’improvvisazione elevata a sistema.
A pagare il prezzo più alto sarà, come sempre, la Sicilia. Ma non come entità geografica. La pagheranno le donne e gli uomini che, in coda da ore in una sala d’attesa, si sentiranno dire che il medico non c’è. La pagheranno gli infermieri costretti a doppi turni. La pagheranno i sindaci di isole dimenticate e di province marginali, cui verrà chiesto di garantire assistenza senza avere strumenti. Questa non è solo una crisi sanitaria. È una crisi di responsabilità politica, di programmazione, di coraggio. Perché, come scriveva Ignazio Silone, “il primo dovere di chi governa non è evitare le colpe, ma prevederle”. E in questa vicenda, le colpe erano ampiamente prevedibili. Ora la domanda non è se agosto sarà il mese del tilt. La domanda vera è: chi se ne assumerà la responsabilità quando il silenzio dei corridoi vuoti sarà più forte delle promesse mancate?