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L’INTERVISTA – Giuseppe Ardica: “La mafia da noi è uno status symbol”

di Redazione -





di JERRY ITALIA – Passano gli anni, cambiano le generazioni e i modi di comunicare, eppure la Mafia continua a rimanere un Brand diffuso tra i giovani, negli anni 90 così come oggi. E c’è un filo rosso che unisce i ragazzini degli anni di piombo, trasformatisi poi nei “Baby Killer” della Stidda ai giovani, poco più che adolescenti che oggi, pur non essendo affiliati, si tatuano la stella a cinque punte sul corpo. In entrambi i casi i giovani subiscono la fascinazione del Male, che assume in maniera contorta un profilo quasi “romanzato”. Solo che adesso le Mafie hanno imparato a parlare i linguaggi dei giovani, attraverso la spettacolarizzazione della vita criminale, che mette insieme chi da un lato già fa parte dell’organizzazione, con chi, dall’altro, sogna di farne parte. Un pericolo che oggi corre soprattutto attraverso il mare magnum dei vari social network, Tik Tok ed Instagram su tutti, dove i giovanissimi emulano le nuove icone del crimine.

Abbiamo provato a capire le dinamiche di questa fascinazione con Giuseppe Ardica, oggi vice caporedattore del Tgr Rai Sicilia, che raccontò in un libro il fenomeno dei “Baby Killer” gelesi della “Stidda”, l’organizzazione criminale nata da una costola di Cosa Nostra che negli anni 90 diventò in pochissimo tempo la “padrona” della parte meridionale dell’isola grazie al traffico di droga, alle estorsioni e alle esecuzioni spietate, sullo sfondo di una Sicilia quasi da girone infernale.
Dai Baby Killer degli anni 90, agli “Stiddari” per emulazione di oggi. La mafia diventa Status Symbol per i giovani criminali?
“La mafia è sempre stata uno status symbol. Lo è stata anche per la mia generazione e ancora per quelle passate. In Sicilia per fare un complimento a qualcuno diciamo: “chiddu è spertu”. E’ sveglio, furbo, spregiudicato, fa di tutto per affermarsi. Ecco in questo senso la mafia è ancora un cattivo esempio per i giovani. E oggi ci sono i social che amplificano tutto”.
Perché in quegli anni un ragazzino entrava a far parte di queste organizzazioni?
“Semplice. Per pura emulazione. Perché respiravano mafia e vivevano di mafia. Entrare in un clan significava diventare rispettabile. Potente. Avere moto, vestiti firmati. La bella vita insomma. Un po’ come “Good Fellas”, il film di Scorsese in cui il protagonista, da ragazzino, guardava i criminali che avevano tutto e voleva essere come loro”.
Negli anni 90 l’ostentazione dello stato di affiliato non era vista di buon occhio dall’organizzazione, oggi i giovani criminali si dichiarano mafiosi anche sui social pur non essendo mai ufficialmente affiliati. Com’è cambiata la percezione?
“Adesso è saltato tutto. Sono saltate persino, permettimi di dirlo, le regole di buona convivenza civile. Ci siamo incattiviti. E’ un problema che riguarda tutto il Paese. Basta scorrere Instagram e guardare i video di qualche trapper romano o milanese o siciliano. I soldi ostentati, le pistole, i poster di Al Pacino in Scarface. E’ un modo malato di vivere e pensare. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo. E qui, in Sicilia, ecco i miti: i mafiosi. I killer”.
Da cronista e osservatore del territorio, come si tengono lontani i giovani dalle “Sirene” della Criminalità organizzata?
“Catania, così come Gela per esempio, sono città con il tasso di dispersione scolastica tra i più alti d’Italia. La scuole vengono disertate nelle periferie più difficili della città. I ragazzini fanno le vedette nelle piazze di spaccio. In questo scenario come si fa a essere ottimisti? serve una grande rivoluzione, gentile, civile”. Di rivoluzione al momento però, c’è solo quella comunicativa delle organizzazioni criminali, confermata anche da Francesco Pira, Professore Associato di Sociologia e Direttore del Master in Esperto della Comunicazione Digitale Università di Messina: “Oggi i mafiosi– spiega – comunicano e commettono i loro delitti attraverso il web. La mafia rurale ha lasciato il posto a quella ipertecnologica. C’è una differenza sostanziale tra il vissuto e il percepito”. Non ci solo i social però, secondo Pira anche la narrazione televisiva di questi ultimi anni ha contribuito ad aumentare il fascino del Male: “È vero che Cosa Nostra è passata con disinvoltura dai pizzini ai nuovi canali social, ma la percezione distorta del reale viene poi enfatizzata dai mezzi di comunicazione, che insistono sui particolari, su quel “feticismo del dettaglio”, che accresce la curiosità, tanto che sempre più spesso i casi di cronaca nera diventano sempre più eventi televisivi, per mezzo dei quali alzare l’audience grazie alla morbosa cura dei dettagli angoscianti”.