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Attualità

Libertà e partecipazione nell’epoca della individualizzazione

di Redazione -





di ANTONIO SACCÀ
Giustamente, necessariamente parliamo, scriviamo sulla libertà e su coloro che l’hanno difesa e affermata e che noi riaffermiamo. Ma esiste anche una libertà degenerata, degradante, quindi non basta vantare la libertà, farne un vanto in quanto tale. Noi riteniamo che il nostro continente sta cancellando il culto del passato, ma il passato esiste e continua nel presente, non è che un individuo per essere adulto rinnega l’infanzia, posto che possiamo considerare la storia in questi termini. Ma la rivoluzione scientifica e tecnologica ha rasato il passato umanistico estetico, quasi che l’arte e l’umanesimo siano valori meno utili. Il fine dell’utilità ha corrotto sia la libertà sia l’umanesimo, stiamo commettendo l’errore di considerare l’utile lo scopo fondamentale della nostra esistenza. Ora questo contraddice il nostro passato il quale certo non trascurava l’utile ma lo connetteva al bello. Addirittura, perfino anche al bene. Niente da dire contro la tecnica e la scienza, tutt’altro, purché siano utili a qualcosa che va al di là della scienza e della tecnica. Di recente in un istituto nel quale svolgo seminari sociologici un docente di informatica, Marco Munafò, mi diede modo di cogliere, nella sua attività, possibilità così strabilianti che sarebbe davvero insensato negare valore alla tecnica. La scienza e la tecnica sono strumentali, altamente e meravigliosamente strumentali, ma non identificano, non sono interiori. È l’uomo espressivo che manifesta la sua identità, la sua libertà, la sua capacità di dare forma alla realtà in maniera personale. La scienza e la tecnica sono anti individualizzanti, non esprimono nulla di personale, chiunque in qualsiasi parte del mondo si eguaglia a chiunque in un’altra parte del mondo. Una società che si circoscrivesse unicamente alla scienza e alla tecnica sarebbe anonima, con tutto l’immenso riguardo alla scienza e alla tecnica come attività strumentali. Bisogna prendere atto che siamo in epoca de individualizzante, e questo è anche dovuto alla decapitazione del mondo umanistico. Voglio dire per essere espliciti che la libertà deve unirsi alla soggettività, all’ espressività del singolo, all’ uscita fuori di sé del sé, l’interiorità che si esteriorizza. E la democrazia che si collega alla libertà in quanto dà diritto a ogni soggetto di manifestarsi, deve però manifestare la libertà come soggettività. Insomma, coltivare l’individualità e i rapporti sociali come individui non come se si costituisse un’entità superiore all’individualità. Leggere la vita degli altri arricchisce, questo è l’umanesimo, partecipare alla società individuo per individuo, valorizzare estremamente la breve esistenza che ci accompagna, e sostenerla vivendo. Di recente ho letto un libro di Graziella Lo Vano, la narrazione gradevolissima, pianeggiante di tante biografie, soprattutto, di Luigi Rizzo. Si tratta della Guerra Mondiale, la prima, e dell’enorme pericolo che il nostro Paese subì giungendo ai limiti del crollo ma risorgendo. Si trattava di luoghi italiani, di civiltà italiana, sotto le mani straniere. E in quel caso la libertà manifestava la sua dignità, gli italiani volevano essere italiani, unirsi agli italiani, ripeto: la libertà si qualificava, manteneva in sé uno scopo, e lo scopo era degnissimo, e per questo scopo degno Graziella Lo Vano nomina dei protagonisti: Nazzario Sauro, il medico Martina il cui cognome era deformato in Martinas, le figlie di questo medico e soprattutto Luigi Rizzo. Luigi Rizzo è un siciliano appassionatissimo fin da sempre di marineria, in una famiglia che vive il mare come navigazione e imprenditoria. Studia a Messina e comincia il percorso degli onori, si distingue all’estero per il suo coraggio, inizia ad essere medagliato, ma non esibisce, non vanta il suo coraggio, lo usa quando è indispensabile. Torna in Italia e avviene l’evento terribile, la guerra, e con la guerra strumenti nuovi di distruzione, e lo strumento che Rizzo porterà alla gloria: delle piccole imbarcazioni capaci in silenzio di avvicinarsi alle grandi navi e colpirle a morte. Ma la narrazione non tocca questi aspetti anche se li prepara, tocca gli aspetti del crollo italiano, della parte italiana che diventa per qualche periodo schiacciata dagli stranieri, la fuga, e narra l’amore contegnoso, all’antica, di Luigi Rizzo per la figlia del medico Martina, Giuseppina. La guerra impedisce, se non il matrimonio, almeno per il momento la consumazione del matrimonio. Luigi Rizzo è diventato indispensabile, compie ulteriori atti eroici e successivamente le imprese leggendarie delle quali Graziella Lo Vano esclude la narrazione: i grandi affondamenti di navi austriache insieme ad altri eroi, fra cui Gabriele D’ Annunzio e Costanzo Ciano. Il finale è malinconicissimo, una cagnetta, Fìfì, che Rizzo aveva preso in conto amorevolmente, alla vista dell’imbarcazione del suo “padrone” che si reca alla guerra subito dopo il matrimonio, pur di raggiungerlo, si scaglia nel mare e perisce. Senza volerlo il libro (“La laguna taceva” Armenio editore, Prefazione di Giseppina Paterniti) è di una tale dignità e amore per la vita, per la vita degna, che uccide, ridicolizza il nichilismo antiqualitativo. Quando siamo in presenza di ciò che è nobile e bello respiriamo e amiamo la vita, il peggio del peggio del peggio che possa accadere è rendere tutto sullo stesso piano, annientare la superiorità, non stabilire quel che alcuni hanno proclamato, che lo scopo dell’insegnamento: è ammirare il genio. Ammirare, ammirare, il soggetto deve tornare soggetto capace di ammirare, individuo capace di ammirare, tornare alla capacità dell’ammirazione qualitativa. Questo non lo fa la tecnica né lo fa la scienza, questo lo fa l’amore interiore che poi si può manifestare anche con la scienza e con la tecnica, ma è uno stato umanistico, interiore. L’individuo deve trovare e ritrovare la passione personale verso scopi elevati, altrimenti, non è che la vita sia nulla, è che noi la rendiamo nulla. Perché invece di esaltare la qualità interiore esteriorizzata, ci stendiamo nell’appiattimento, la pseudo uguaglianza, lo sguardo al basso, non cerchiamo di amare ciò che ci riempie di vita. Questo acconsentimento alla mediocrità, al tutto sullo stesso piano, della comunità che teme qualsiasi disuguaglianza, porta non al grande nichilismo, che ha una sua enorme dignità, ma alla condiscendenza verso ciò che è basso, ripeto, facilitato al livello minimo di sforzo, cognitivo ed estetico. Bisogna ritrovare e rifondare il livello di ogni singolo individuo, La massa non vale più del singolo solo perché è di maggior numero, e mai andare incontro alla massa, mai, o, nel caso, trarre la massa. È un piacere leggere libri su persone che possiamo stimare, perché, insisto, l’ammirazione verso ciò che vale colma la vita finché viviamo, quand’anche sotto l’ombra del nulla. Come ho scritto spesso è inutile porre il problema di ciò che vale; quando la società ha perduto la disposizione spontanea alla qualità, non vale spingerla ad ammirare ma occorre tentare. Vi è qualcosa in Natura che volge all’ammirazione di ciò che vale, se si perde questa disposizione non vi è più civiltà, ma solo un mastodontico vivere insieme, sopravvivere insieme. (Segue).