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La crisi della pesca arriva anche in piazza

di Redazione -





di GIUSEPPE MESSINA
Benvenuti nel mondo della pesca, il cugino povero dell’agricoltura. Talmente povero da non avere le forze per organizzare una protesta come si deve. Eppure l’Unione Europea non è stata gentile con i pescatori comunitari. Anzi, tutt’altro! Il settore, da quando è stato introdotto lo strumento della Politica Comune della Pesca, è entrato nel tunnel dell’estinzione. Incapaci di mostrarsi resilienti ai mutamenti esterni, le imprese di pesca italiane vanno ineluttabilmente verso la chiusura. La pandemia da Covid 19, la guerra russo-ucraina, i costi energetici fuori controllo da oltre due anni, i cambiamenti climatici con l’aumento delle temperature dell’acqua, costituiscono tutte insieme le precondizioni per la catastrofica chiusura del settore primario italiano. La pesca è gravemente malata. Rispetto ai cugini agricoltori, oltre 175mila in Italia, le poche migliaia di pescatori (se ne contano circa 25 mila lungo le coste italiane) hanno perduto la forza, il coraggio e la determinazione d’un tempo. Mentre i trattori hanno percorso migliaia di chilometri per mostrare i muscoli ad una politica distratta, irriverente, strafottente, lontana dall’economia reale e dalle esigenze di tenuta dei settori primari, i pescherecci restano attraccati in porto per circa 230 giorni l’anno nel silenzio tombale di imprenditori ittici e pescatori. Mancano le forze e l’agonia economico-finanziaria sta rosicchiando le ultime forze per difendere la pesca. In cabina di regia, a dettare legge e assestare il colpo mortale al settore, proprio l’Unione Europea. Eppure il settore vanta ancora oggi numeri importanti sia in termini di quantità prodotte che di valore espresso. Partiamo dal chiarire che si divide in due diverse attività economiche: la pesca è intesa come l’insieme di attività relative alla ricerca e cattura degli animali che vivono in ambiente acquatico; mentre l’acquacoltura viene definita come la produzione di organismi acquatici, principalmente pesci, crostacei e molluschi, in ambienti confinati e controllati dall’uomo (Indagine conoscitiva UECoop, 2022). Tra le due componenti, la pesca esprime più del 50 % della produzione complessiva e fornisce il maggior apporto in termini di valore, con circa 900 milioni di euro (2020), esattamente il doppio rispetto all’acquacoltura, con una produzione ittica tra le più elevate in Europa in termini di qualità. Nonostante la rilevanza economica, il settore, negli ultimi decenni, ha intrapreso un percorso di contrazione considerevole per effetto dell’evoluzione del contesto normativo comunitario che va spedito nella direzione della riduzione dello sforzo di pesca, al quale vanno aggiunti i fattori esogeni determinati dalla crisi economica indotta dalla pandemia da Covid-19 e dalla guerra russo-ucraina, che ha fatto schizzare alle stelle il prezzo del carburante. Il settore della pesca e dell’acquacoltura italiano vale 1,4 miliardi di euro nel 2020. L’Italia si posiziona al quarto posto in Europa per valore della produzione e al sesto per quantità prodotta, ma l’elevata qualità del pescato nazionale permette all’Italia di essere il primo Paese europeo per valore unitario della produzione tra i principali competitors. Nonostante tutto questo, le marinerie italiane e siciliane in particolare, sono sull’orlo del fallimento. Divieti di pesca, diminuzione delle giornate di cattura, per alcune specie di rilievo economico, zone di nursery soffocano il settore da decenni. Basti pensare che le imbarcazioni da pesca devono fermarsi nel corso dell’anno per trenta giorni consecutivi per osservare l’obbligo di arresto temporaneo, altri 60 giorni come fermo aggiuntivo, ai quali aggiungere le giornate di maltempo. Alla tirata delle somme, sono circa 130 le giornate di pesca effettiva e con questi numeri non è più sostenibile l’attività dal punto di vista economico. E tutto questo perché? Per raggiungere l’obiettivo comunitario di riduzione dello sforzo di pesca nel Mediterraneo. In linea di principio, sarebbe un obiettivo condivisibile e giusto; ma ci chiediamo: come può raggiungere l’UE l’obiettivo della riduzione dello sforzo di pesca se, fermandosi i pescherecci comunitari, le imbarcazioni delle marinerie maghrebine, ottimamente attrezzate e tecnologicamente avanzate, pescano negli stessi areali? Come potrà mai ridursi lo sforzo di pesca? A voler pensare male, c’è il convincimento che l’Unione Europea non abbia alcun interesse a mettere intorno ad un tavolo le Istituzioni dei paesi extra Ue che si affacciano nel Mediterraneo, svendendo – di fatto – il settore e la sua capacità di produrre benessere, a discapito del patrimonio ittico siciliano e delle altre realtà italiane che andrebbe perduto definitivamente e con esso occupazione, valore, tradizione e cultura, continuando ad avvantaggiare ulteriormente le società di importazione. Questa volontà comunitaria è confermata dalla programmazione 2021/2027 del FEAMPA, il Fondo operativo per la pesca e l’acquacoltura, che ribadisce la misura di arresto definitivo dell’attività di pesca. Ciò per dire che lo strumento della demolizione rimane, allo stato attuale dei divieti e dei controlli, lo strumento per ridurre quasi allo zero le imbarcazioni da pesca, anziché rilanciare il settore con l’innovazione tecnologica, la sostenibilità ambientale e la riconversione con un piano straordinario di rilancio del settore accomunato da una strategia di contenimento dello sforzo di pesca da attuare con regole comuni di accesso fra tutti gli Stati Ue ed extra Ue presenti nel bacino del Mediterraneo. Ad analizzare dal punto di vista dell’imprenditore della pesca lo stato delle cose, la misura del disarmo diventa l’unica via d’uscita per evitare il tracollo economico e finanziario per la propria impresa ittica. Nel Piano Operativo 2021/2027 del Feampa, la misura delle demolizioni delle imbarcazioni da pesca vale circa 150 milioni di euro, di cui 74 saranno messi a bando prossimamente. Saranno in tanti a ricorrere alla misura di definitiva uscita dal settore per evitare il fallimento. E continuiamo polemicamente a chiederci se la volontà comunitaria sia veramente quella di chiudere il settore della pesca perché non ha stanziato almeno 500 milioni di euro, tanti quanti ne servirebbero per mettere fine al settore primario della pesca in Italia. E se così fosse, perché continuare con questa agonia, lunga oltre vent’anni? Il dato di sistema è la chiusura di un settore primario importante per la nazione come la pesca e la consegna ai paesi del Maghreb e del Medio Oriente degli specchi acquei nel Mediterraneo, con la perdita in termini di produzione, valore economico e patrimonio culturale. Ne faccia ammenda la pletora di europarlamentari italiani e siciliani che negli ultimi decenni sono stati assenti, condannando l’agricoltura a subire le angherie sulle nostre produzioni d’eccellenza e la pesca a chiudere.