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I SICANI – Padre Gioacchino Ventura e quella rivoluzione da riscrivere

Conoscere la storia e il pensiero di questo sacerdote apologeta, filosofo e politico, significa capire il perchè della Sicilia in Italia

di Redazione -





di ANTONINO SALA
Giovanni Gentile afferma ne Il tramonto della cultura siciliana, che “oggi non è più distinguibile una cultura siciliana regionale, perché non c’è più, isolata e contrapposta al generale spirito italiano, un’anima siciliana. La dissoluzione di questa cultura regionale ha luogo appunto dopo il 1860 (e il 48…). Dal ’49 in poi si accinse alla nuova preparazione, che fu nazionale, opera concorde dei vinti di tutte le singole rivoluzioni, destinate a vincere dieci anni dopo e far quindi rifluire sulle varie regioni, da cui si era partiti, il nuovo spirito nazionale“. Nel clima che descrive Gentile, si staglia tra i protagonisti della rivoluzione del 1848, preludio dell’Unità d’Italia, Padre Gioacchino Ventura di Raulica (Palermo, 8.12.1792/Versailles, 2.8.1861). Sacerdote apologeta, filosofo e politico, nel solco del tradizionalismo controrivoluzionario di Félicité de Lamennais, Joseph de Maistre e Louis de Bonald. Da Papa Leone XII, fu nominato docente di diritto canonico a La Sapienza e nel 1830 eletto Superiore Generale dei Teatini. Nel 1848 sostenne la rivoluzione siciliana, credendo possibile la rifondazione di un Regno di Sicilia indipendente da quello di Napoli ma partecipe di una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del Papa, in nome di una grande unità nazionale. Accettò la carica di ministro plenipotenziario e rappresentante del governo siciliano a Roma, dove, come scrisse poi dopo Don Luigi Sturzo, “svolse una concreta azione politica”. Gioacchino Ventura cercò di aggregare i cattolici intorno a un programma liberale e federale. Scrive Nicola Del Corno, professore associato di Storia delle Dottrine Politiche dell’Università degli studi di Milano: “Dopo gli anni ’30, maturò in lui una svolta antiassolutista che lo portò a considerare anacronistica la pretesa del potere politico di impedire la partecipazione della società ai processi decisionali. Conscio che i popoli reclamassero giustamente una maggiore libertà e che contro di essi nulla ormai potessero le forze repressive, auspicò un maggior interessamento del clero a questa battaglia di emancipazione; era la Chiesa che doveva indicare la via per sconfiggere le sempre possibili derive tiranniche in cui inevitabilmente finiva uno Stato incapace di comprendere esigenze e aspirazioni dei suoi sudditi. Da un punto di vista istituzionale Ventura fu fautore del decentramento e di soluzioni federaliste; oltre al favore espresso per una soluzione confederale della vicenda italiana, il suo progetto aveva un ampio respiro internazionale, che faceva perno sul Papa quale capo spirituale e arbitro morale di tutti i popoli cattolici. In alternativa allo statalismo autoritario, Ventura proponeva un’Europa cristiana, liberamente federata e rispettosa delle realtà e delle culture locali”.
E proprio per questo, come scrive lo storico Pasquale Hamel, in una lettera a Massimo d’Azeglio del 27 luglio del 1849, egli sostenne di avere preso parte alle vicende romane “nel solo interesse della religione e del Papa”. A Roma, dopo la proclamazione della repubblica, in un colloquio con Mazzini, come scrive Francesca Riccobono, “ottenne da lui il riconoscimento e la promessa che, se si fosse realizzata l’unificazione italiana, la Sicilia avrebbe mantenuto la sua particolare autonomia e indipendenza e stabilito collegamenti federativi con l’Italia”. Nelle settimane precedenti, ricorda ancora Hamel, aveva avuto un colloquio analogo con Garibaldi: “Ho il piacere di poter aggiungere che il famoso Garibaldi, discepolo del Mazzini (fiero repubblicano fusionista) (…) ha (…) rinunziato alla stolida idea di doversi l’Italia fondere in una sola Repubblica; è venuto nella idea di formare una federazione Repubblicana dei diversi stati italiani, lasciando a ciascuno la sua autonomia ed indipendenza ed ha promesso di scrivere e di operare nel medesimo senso presso il Mazzini”. I protagonisti del 1848, a differenza di quanto la vulgata antinazionale dichiari, non erano insensibili all’idea dell’unificazione italiana federale o addirittura confederale. Il suo pensiero oggi va riscoperto, sia per smentire i falsi miti di un sicilianismo mai esistito in chi la rivoluzione siciliana l’aveva fatta veramente, sia per riaffermare i valori della libertà e dell’unità conquistati dal popolo italiano, di cui i Siciliani sono parte fondamentale.