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I SICANI – L’obbligo giuridico di redenzione dei siciliani

di Redazione -





di MICHELE GELARDI

La legge è uguale per tutti. Il sacro principio non è certamente violato in Italia; si può dubitare tuttavia che l’interpretazione delle norme sia uniforme e gli spazi di libertà dei cittadini siano identici in ogni parte d’Italia. L’ingresso della parola “mafia” nei processi ha l’effetto di alterare i rapporti accusa-difesa e prevenzione-repressione e, poiché l’ingresso avviene in determinate aree territoriali, l’applicazione della legge può rivelarsi differenziata. Alcune recenti vicende ne danno conferma.
Il nostro giornale pochi giorni fa ha dato notizia dell’imputazione a carico di persone che hanno dovuto subire le richieste estorsive di affiliati a cosche mafiose palermitane. Probabilmente si tratta di un caso unico, in Italia e nel mondo, perché la vittima dell’estorsione è universalmente considerata persona offesa dal reato. Si deve supporre infatti che il pagamento del “pizzo” non sia gradito da chi subisce l’imposizione altrui e pertanto non possa essere considerato un “contributo volontario” o un “obolo” misericordioso. Se l’estorsione si concretizza in una coazione morale, il soggetto che la subisce non può che essere considerato vittima. Non ci sarebbe nemmeno estorsione senza la minaccia e l’intimidazione, cosicché il fatto stesso di ipotizzare l’estorsione di Tizio implica la supposizione che Caio sia la vittima, non già il “compare”. Come si passa dunque dalla condizione di persona offesa a quella di imputato? Appunto con l’ingresso della parola “mafia”. La colpa della vittima sarebbe quella di non aver denunciato l’estorsione e di essere connivente con l’associazione criminosa. Ma con ciò muta, a ben vedere, la fisionomia stessa del diritto, che si tinge di moralità; ma anche la finalità della pena, che diventa “pedagogica” e “propulsiva”. Si vuole insegnare ai siciliani il dovere di ribellarsi alla mafia. Ottimo intendimento, purché sia chiaro che si tratta di un imperativo morale, ben diverso dall’obbligo giuridico penalmente sanzionato. Non si può punire come reato l’omessa denuncia, perché solo le dittature pretendono la collaborazione attuosa del cittadino alle politiche repressive e la dimostrazione di fedeltà al regime. Né si può punire come “connivenza” la mancanza di coraggio, giacché il coraggio è auspicabile, ma non può essere imposto. Non si può esigere che il cittadino sia un eroe. E d’altronde lo Stato democratico non può utilizzare la norma penale in funzione educativa, per la semplice ragione che la pena è per sua natura sanzionatoria e afflittiva; pertanto deve essere riservata solo alle gravi violazioni dell’ordine costituito, non già vocata a promuovere la virtù o instaurare un nuovo ordine etico-sociale. Il diritto penale è diretto a reprimere i fatti passati, non già a educare il popolo al futuro. La funzione del pedagogo, che indirizza alla virtù il futuro comportamento dell’educando, non appartiene ai Tribunali.
Il cortocircuito passato-futuro si può ravvisare anche in quella confusione repressione-prevenzione, alla base delle c.d. misure di prevenzione antimafia, oggi sotto le lenti della CEDU. Si attende fra poco la sentenza della Corte sul ricorso Cavallotti, le cui vicende – simili a quelle di molti altri imprenditori siciliani (Lena, Ferdico, Niceta, Ciancio etc.) – sono abbastanza note. Persone che non hanno commesso alcun reato vengono condannate alla confisca del patrimonio, del quale non riescono a dimostrare la provenienza lecita. In molti casi si tratta di una prova impossibile, come risultò evidente nel caso dei fratelli Niceta, eredi del patrimonio “sospetto” del padre defunto, mai tuttavia “sospettato” in vita. Fu loro richiesta la probatio diabolica sui titoli di acquisto di 30-40 anni addietro; le loro aziende furono sequestrate; alla fine di un lunghissimo processo, si videro restituite le aziende, gravate da una montagna di debiti contratti dagli amministratori giudiziari. Molto simile la vicenda dei Cavallotti, incensurati i figli, assolti in precedenti processi penali i padri. La CEDU, prima del verdetto, ha chiesto al governo italiano di chiarire il perché di una confisca senza reato e i chiarimenti del governo hanno chiarito ben poco, limitandosi a ribadire la natura formalmente “preventiva” di siffatta confisca. Ma in verità la prevenzione presuppone un pericolo e tuttavia, in questi casi, manca il soggetto pericoloso; la prevenzione si volge al futuro, mentre la confisca si volge al passato, come sanzione dell’acquisizione illecita del bene confiscato; la prevenzione è per sua natura temporanea, in ragione di un pericolo non necessariamente durevole, mentre la confisca si risolve nell’ablazione definitiva della cosa. Insomma, l’ingresso della parola “mafia” sembra generare una confusione delle lingue tra passato e futuro, repressione e prevenzione; ma anche tra diritto e morale, giacché sembra gravare sugli “irredimibili” siciliani un obbligo giuridico di “redenzione”, che non grava su altri.