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I SICANI – La riforma agraria in Sicilia e l’autonomia dell’Isola

Strade che si intrecciano quelle dello statuto e del comparto più florido dell'economia isolana. La legge stralcio...

di massimilianoadelfio -





di PASQUALE HAMEL – L’Autonomia siciliana, disegnata dallo Statuto del 1946, era mirata più che alla crescita e allo sviluppo dell’Isola, a tutela degli interessi dei ceti dirigenti locali. Una conferma la offre il provvedimento che viene considerato storicamente più importante fra quelli varati dall’ARS nel corso dei suoi 77 anni di vita. Parliamo della legge regionale 27 dicembre 1950 n. 104 con la quale si estendeva anche alla Sicilia la riforma fondiaria che il parlamento nazionale aveva approvata il 21 ottobre 1950, legge 841. In Sicilia, la ‘legge stralcio’ subiva, soprattutto, sul versante caldo delle espropriazioni, temperamenti a favore dei proprietari terrieri. Nonostante questo taglio pressoché moderato, non mancò la protesta del padronato in merito alle presunte potenzialità eversive della legge, evidenziando che essa infliggeva un duro colpo al tradizionale assetto economico-sociale dell’isola. Proprio queste riserve erano state, peraltro, motivo di vivacissime polemiche che avevano inciso fortemente sull’iter di approvazione della legge. Il dibattito d’Aula era stato infatti segnato da grandi tensioni e significative contrapposizioni di natura soprattutto ideologica.

Mentre infatti la Democrazia cristiana che, con Franco Restivo, guidava una coalizione di centro, puntava a promuovere la formazione della piccola proprietà contadina con l’assegnazione dei lotti ai singoli contadini, la sinistra socialcomunista individuava nella riforma uno strumento di aggressione al concetto stesso di proprietà privata e indicava nelle cooperative il soggetto privilegiato destinatario delle assegnazioni. La destra poi, che in quel frangente faceva da quinta colonna della coalizione di governo, sfruttava questa sua collocazione nel tentativo di far fallire l’intero progetto. Non sorprende dunque che, alla fine, ciò che ne venne fuori, sul piano dei risultati, scontentasse un po’ tutti. La Democrazia cristiana non era infatti riuscita nel suo obiettivo di promozione e diffusione della piccola proprietà contadina perché le assegnazioni riguardarono terreni di pessima qualità e la superfice dei lotti assegnati, appena quattro ettari a differenza dei sette della legge nazionale, non erano in grado di garantire all’assegnatario un reddito dignitoso. La sinistra socialcomunista vide sconfitto il suo disegno punitivo della proprietà che tanta preoccupazione aveva suscitato nel padronato alleato del potere mafioso.

Ma neppure la destra conservatrice ne venne fuori vittoriosa visto che non era riuscita ad impedire che i rapporti di forza subissero un notevole cambiamento con il ridimensionamento del potere di quel ceto agrario, che nonostante taluni clamorosi colpi di coda, dei quali il più eclatante fu la rivolta milazzista, appariva inesorabilmente avviato sulla strada del declino. Non fu neanche colto l’obiettivo, caro a tutti, del rilancio dell’agricoltura siciliana nel quale si era sperato, perché il provvedimento ebbe solo l’effetto di aggravarne la crisi. Le campagne vennero abbandonate e la rendita agraria subì un pesante ridimensionamento. Chi ci guadagnò furono i grandi latifondisti, lautamente risarciti per l’esproprio di fondi in gran parte dei quali non esercitavano più il diritto di proprietà perché, anche a causa del loro patologico assenteismo, erano stati da tempo usurpati da concessionari e gabellotti, per lo più mafiosi. Se questo fu il risultato della riforma sul mondo agrario, non si può però trascurare il non previsto aspetto positivo che la legge di riforma ebbe sul piano sociale. Grazie infatti alla riforma il paesaggio agrario siciliano, bollato da intellettuali e letterati come “irredimibile”, sarebbe rapidamente mutato e la Sicilia del latifondo, tradizionalmente considerata il maggiore ostacolo alla trasformazione e alla modernizzazione dell’isola, veniva infatti inesorabilmente spazzata via. Quella legge, infatti, al di là delle intenzioni dei suoi promotori aveva messo in moto uno straordinario meccanismo di mobilità sociale, purtroppo non pienamente compreso dai ceti dirigenti del tempo, che avrebbe mutato in pochi anni il volto della Sicilia.