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I SICANI – Francesco Ferrara, economista politico e maestro di libertà

di Redazione -





di ANTONINO SALA
Francesco Ferrara fu uno dei più autorevoli economisti dell’Italia dell’ottocento. Ricoprì diversi incarichi sia accademici che politici: professore di Economia politica all’Università di Torino e di Pisa (novembre 1859-agosto 1860); deputato alla Camera dei Comuni (Sicilia) (1848-1849); socio nazionale dell’Accademia dei Lincei di Roma (26 ottobre 1876); prima deputato e poi senatore del Regno d’Italia e ministro delle Finanze nel 1867.
Fu fondatore nel 1874 della Società Adamo Smith insieme a Vilfredo Pareto, Ubaldino Peruzzi. Nel 1848, durante i moti siciliani fu inviato a Torino per proporre al secondogenito di Carlo Alberto di Savoia l’accettazione della Corona di Sicilia. Il suo nome è legato alla teoria del costo di produzione che superò la teoria classica del valore basata sull’effettivo costo di produzione, introducendo quella soggettivistica fondata sull’utilità marginale tipica della scuola austriaca.
Ferrara, come già aveva fatto Henry Carey (il principale economista della scuola americana del XIX secolo e capo consigliere economico del presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln), che il siciliano aveva fatto conoscere in Italia attraverso la Biblioteca dell’economista, collega il fatto economico a un approccio dichiaratamente individualista, al contrario della teoria marxista del valore-lavoro. Il valore, da fatto accertabile mediante il conteggio delle ore di lavoro necessario per la produzione, diventa il risultato di un giudizio dei soggetti sulle alternative al ricorso a quel bene, alternative che passano per i surrogati di esso.
Ferrara riteneva inoltre inutile aumentare la quantità circolante di moneta, al contrario di quanto sosterrà tempo dopo John Maynard Keynes, quando la fiducia degli operatori economici è debole, poiché l’immissione nel mercato di denaro verrebbe depositata invece di essere utilizzata in investimenti produttivi.
Dal punto di vista strettamente politico pensava che le istituzioni sono tanto più forti quanto più sono il frutto di una contrapposizione politica trasparente, con partiti portatori di idee alternative. E per questo si schierò contro ogni ipotesi terzopolista, tant’è che scrisse “il ludibrio de’ terzi partiti è sempre pronto a mostrarsi colla pretesa di far consistere la verità in una transazione qualunque, e sciogliere il problema insolubile di un giusto mezzo a scoprirsi fra una verità e un errore.”
Nel 1851 citando l’aforisma di Bastiat per cui lo Stato è “la gran finzione per mezzo della quale tutti si sforzano di vivere a spese di tutti”, aggiungeva “i protezionisti non sono che una frazione di questo tutti. Essi vogliono la legge, ma in tutto ciò che favorisca l’interesse della loro casta. I comunisti e i socialisti sono un’altra frazione del medesimo tutti.”
Per l’economista siciliano “il cittadino si identifica con il consumatore dei servizi pubblici, valutati secondo la loro utilità; la società civile coincide con il mercato dei produttori e dei consumatori; il governo stesso nasce da un processo di divisione del lavoro. Luigi Einaudi osservò che l’essenza del ragionamento non sta tanto nel contrattualismo politico, quanto nell’estensione del calcolo economico all’operatore pubblico. Ferrara aveva così gettato le basi della cosiddetta “Tradizione finanziaria italiana”, attenta alla patologia oltre che alla fisiologia del rapporto Stato-contribuente. Oggi la tesi del siciliano appare una sorprendente anticipazione delle concezioni della public choice di James M. Buchanan.
Ferrara fu un fiero oppositore del socialismo e dello storicismo marxista, e un propugnatore di un idea di progresso che si dipana senza un percorso definito e pianificato al di fuori di una via obbligata. Scrive Ferrara “nulla quaggiù ci è dato godere se non comperandolo per via di travagli e di dolori “. Si oppose ad ogni forma di posizioni dominanti, anche a quelle bancarie, perché riteneva che “privilegi di corpo, monopoli, coalizioni, limiti alle ore di lavoro han provato che quando con artifici estrinseci si vuol deviare l’industria dal suo corso naturale, il lavoro non regge alle sproporzionate condizioni che gli s’impongono, cede, si dissipa e l’operaio non avrà sospeso lo stato della sua penuria che per toccare i limiti della fame.”
Federalista ma mai localista, né rivendicazionista piagnone. Studioso eclettico, dalla visione chiara dei problemi economici, critico della superficialità di alcune posizioni del suo tempo che gli facevano apparire come “in economia, le teorie son tronche, le loro applicazioni rischiano di fallire, ed è impossibile di vederne i limiti, l’estensibilità, i pericoli, i tarli, se si trascuri di studiarne la storia.”
Un pensatore da collocare in compagnia di Carl Menger ed Eugen von Böhm-Bawerk nel pantheon dei grandi economisti europei.