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Attualità

I SICANI – Ci tocca rimpiangere anche la Cassa per il Mezzogiorno

di massimilianoadelfio -





di MICHELE GELARDI
In quel tempo fu la Cassa per il Mezzogiorno. Istituita con legge 646 del 1950, fu destinata alla spesa pubblica straordinaria nelle aree meridionali. Provvedeva alle grandi opere infrastrutturali e di rilevante interesse pubblico, con autonomia decisionale e gestionale, secondo una procedura amministrativa semplificata, indipendente dai circuiti ministeriali e degli enti locali. Le opere venivano costruite nel territorio di Vattelapesca, ma non si richiedeva il parere preventivo e l’autorizzazione, il controllo successivo e il collaudo di Vattelapesca; né il parere dell’ornitologo del paese vicino a Vattelapesca, a tutela delle pernici e delle quaglie, potenzialmente disturbate dall’opera in costruzione. A dire il vero, oggi conta anche il parere dell’ornitologo del paesello lontano, dal momento che gli uccelli volano e superano i confini comunali; ma in quel tempo si viveva nella prima repubblica. Costretto alla comparazione tra il passato e il presente, devo confessare purtroppo che i miei capelli bianchi mi fanno appartenere di diritto al club dei laudatores temporis acti. E tuttavia, a prescindere dall’inclinazione nostalgica, mi pare che quel passato rifulga di luce propria, oltre che in comparazione col desolante spettacolo odierno. Nella prima fase, la Cassa, presieduta dall’eminente economista Pasquale Saraceno, poté assumere le decisioni di investimento in piena autonomia, sulla base di budget prestabiliti, non essendo coinvolta nella “programmazione” di Stato. Non apparteneva alla Cassa alcuna competenza in materia assistenziale e sociale e la sua attività non interferiva con quella delle altre amministrazioni pubbliche. Seguiva una strada separata in vista di un obiettivo specifico e mirato, per il fatto che l’intervento straordinario nel Mezzogiorno doveva essere aggiuntivo e suppletivo rispetto a quello ordinario, il quale seguiva la diversa trafila, propria dell’amministrazione pubblica di competenza, ministeriale o territoriale. I successi, per esempio in Sicilia, furono molteplici: infrastrutture (come la diga Pozzillo), interventi mirati in agricoltura, ma anche promozione di siti di interesse storico-culturale (valle dei Templi, parco di Selinunte). L’assetto istituzionale e funzionale della Cassa, vigente fino al 1965, aveva tre pregi di grande rilevanza, l’un l’altro connessi: a) funzione di servizio alla produzione; b) snellezza organizzativa; c) autonomia decisionale. Nella visione liberale dell’ordine dei rapporti economico-sociali, lo Stato non deve produrre ricchezza, ma agevolarne la creazione da parte dei soggetti privati. Quando lo Stato vuole intervenire come “giocatore in campo” nel mercato dei beni e servizi, non può che dissipare quelle risorse che l’intelligenza dispersa dei mille operatori è capace di allocare meglio, rispetto all’intelligenza del pianificatore centralistico. E poiché la dotazione infrastrutturale è il primo degli elementi che agevolano il mercato, senza interferire con la sua libera dinamica, risulta certamente apprezzabile, ai nostri occhi, quella prima e originaria filosofia dell’intervento straordinario, unicamente diretto a riequilibrare le condizioni di base dello sviluppo economico (che si potrebbero definire “le pari opportunità” territoriali). Ma è noto che prevalsero, negli anni successivi, le correnti di pensiero che esaltavano la programmazione e il dirigismo di Stato in tutti gli ambiti della coesistenza umana. Con la legge 717 del 1965 venne istituito il ministero dell’intervento straordinario e due anni dopo il CIPE (comitato interministeriale per la programmazione economica). I partiti politici iniziarono a entrare dentro i meccanismi decisionali della Cassa, con il potere di modificare o cambiare totalmente i piani predisposti dalla componente tecnica. Nel 1971 con la legge 853 anche le regioni furono ammesse al banchetto dell’intervento straordinario; i livelli di spesa crebbero a dismisura, i progetti diminuirono e divennero sempre più confusi e incoerenti. Il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese aumentò, fino a tornare, ai giorni nostri, ai livelli precedenti alla nascita della Cassa. Tutto ciò in nome della “socialità”. Lo Stato “sociale”, infatti, non poteva accontentarsi di omogenee condizioni di sviluppo, ma doveva gestire esso stesso la dinamica economica. È iniziata così la politica delle mance redistributive, la quale ha travolto prima la Cassa per il Mezzogiorno e ha raggiunto poi vette inarrivabili, culminando ai nostri giorni nell’elargizione dei bonus più variegati. Tra questi primeggia, in beffarda fantasiosità, il bonus per le “casse da morto”, che sembra invitare i cittadini a farsi da parte, per non disturbare il grande manovratore.