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I braccianti invisibili: “Ecco come viviamo, dobbiamo scegliere tra medicine o cibo”

di massimilianoadelfio -





di JERRY ITALIA – I braccianti invisibili: “È così che vivo io, anche se non so se posso ancora chiamarla vita. Questa non è una casa, è una prigione e so che un giorno diventerà la mia tomba”, ci accoglie così Moshen, uno dei tantissimi invisibili della fascia trasformata che va da Gela fino a Ragusa, dove migliaia di braccianti irregolari lavorano in condizioni terribili nell’indifferenza delle istituzioni. Perché qui, all’ombra della plastica delle serre i diritti non esistono. Moshen, poco più di 50 anni, è arrivato a Vittoria dalla Tunisia in aereo, con un visto regolare trent’anni fa. Ha iniziato a lavorare tra le serre con un contratto regolare, che una volta scaduto non gli è stato più rinnovato. E così è stato costretto a lavorare in nero, e ha man mano perso tutto: la casa in affitto, il permesso di soggiorno e ogni altra garanzia.
Oggi vive qui, a un passo dai centri commerciali, nascosto tra le erbacce e i rifiuti dove c’è un agglomerato di ruderi abbandonati. Qui vive in uno spazio angusto in condizioni terribili. Senza luce, acqua riscaldamenti, e spesso cibandosi di cibo scaduto buttato via dal vicino supermercato. E anche lui ci racconta lo stesso triste copione. “All’inizio immaginavo che fosse solo un periodo passeggero, che tutto sarebbe cambiato non appena avessi trovato un lavoro migliore, ma i giorni passano e la mia vita è sempre uguale”.
A pochi metri da dove vive Moshen c’è una casa rurale diroccata, poco fuori Vittoria, dove ci accoglie Alì. Lì in pochi metri quadri vivono in quattro in condizioni estreme. Alì abita qui da nove anni ormai perché nessuno vuole affittare casa, e senza casa e lavoro in regola non può neanche pensare di portare la sua famiglia in Sicilia. “Per lo Stato italiano non esistiamo, per il comune nemmeno – dice Alì – è più semplice voltarsi dall’altra parte e far finta che non esistiamo. Io non vedo la ma famiglia da 15 anni ormai e vedo mia figlia crescere solo attraverso le videochiamate. Vorrei portarli qui, ma senza un contratto di lavoro, non posso né affittare una casa né ottenere un permesso di soggiorno regolare”. Nessuno di loro lavora in regola né può usufruire dei diritti concessi ai lavoratori, anzi, spesso lavorano il doppio delle ore a metà retribuzione, a volte tutto l’anno senza riposo, come ci racconta Lanouar, un altro degli abitanti dell’alloggio. Lanouar ha lavorato come bracciante in regola per oltre vent’anni, poi un brutto incidente sul lavoro gli ha quasi fatto perdere una gamba. Da allora non riesce più a mantenersi né a comprare le medicine per curare la cancrena che gli sta divorando il muscolo. “L’altro ieri, a causa dell’infezione mi è salita la febbre – ci dice mostrandoci le lastre e le cartelle cliniche – ma in tasca avevo solo 5 euro e ho dovuto scegliere se comprare gli antibiotici o qualcosa da mangiare”. Lasciamo Lanouar che prepara un caffè con una caffettiera che ha visto giorni migliori, su un fornello di fortuna ricavato da un bidone di alluminio. Ci indica la strada per quello che tutti chiamano l’Hotel degli Invisibili. Siamo andati lì giorni prima dell’incendio e siamo riusciti ad incontrare chi ci viveva. A guidarci in quello che sembra un vero e proprio girone infernale è Carlos, lui è giovanissimo, non parla una parola d’italiano. Riusciamo a malapena a capirci con un po’ di francese. Ci racconta che non lavora più da tempo e ci accompagna all’interno della struttura, dove ogni abitante ha ricavato per sé una stanza. L’immondizia ricopre gran parte del pavimento dell’intera struttura, l’aria e malsana e le coperture in amianto dei tetti sono una vera e propria bomba ecologica. Al secondo piano incontriamo Benoit, il più anziano di tutti. Ha sessantacinque anni ed è un reduce della Guerra di Algeria. Vive in una stanzetta dello stabile che riesce a mantenere incredibilmente pulita. Sul muro le foto della sua famiglia e una con la divisa dell’esercito algerino. “Sono venuto qui con la speranza di una vita migliore – racconta – avevo una casa ed un lavoro. Poi sono diventato vecchio e man mano ho perso tutto”. Benoit inforca un occhiale senza una lente, ha praticamente perso la vista da un occhio eppure ogni giorno va con gli altri nella speranza che qualcuno gli conceda qualche ora di lavoro.
“Non sempre mi scelgono – dice – sono vecchio e acciaccato, ma il lavoro nei campi è l’unica cosa che mi è rimasta”.
Il sole sta tramontando, lo salutiamo e andiamo via, mentre dai campi appaiono le sagome degli altri invisibili che tornano dai campi. Per loro finisce un’altra giornata nel Limbo della indifferenza, domani ne inizierà un’altra sempre uguale.