La Sicilia nel dissesto: comuni in braghe di tela
Con i dati aggiornati al 30 novembre di quest’anno, sono 66 gli enti pubblici della Sicilia che vivono in dissesto (meglio non aggiungere il numero di quelli in pre-dissesto perché si corre il rischio di vedersi sommersi…): Aragona, Canicattì, Casteltermini, Naro, Porto Empedocle nell’Agrigentino; Niscemi, Riesi, San Cataldo e Sommatino in provincia di Caltanissetta; Acicatena, Calatabiano, Caltagirone, Fiumefreddo di Sicilia, Giarre, Maniace, Palagonia, Pedara, Randazzo, Santa Venerina, Vizzini e il capoluogo, Catania cioè, nella provincia etnea. E ancora: Aidone, Barrafranca, Leonforte e Piazza Armerina nell’Ennese; Barcellona Pozzo di Gotto, Graniti, Gualtieri Sciminò, Itala, Malvagna, Mazzarra Sant’Andrea, Milazzo, Militello Rosmarino, Mojo Alcantara, Oliveri, San Fratello, Santa Domenica Vittoria, Taormina, Tortorici in provincia di Messina; Belmonte Mezzagno, Bolognetta, Borgetto, Caccamo, Casteldaccia, Ficarazzi, Isola delle Femmine, Marineo, Partinico, Trabia e Ustica nel Palermitano; Chiaramonte Gulfi e Ispica in provincia di Ragusa; Buscemi, Cassaro, Floridia, Lentini, Noto, Pachino, Rosolini e pure il Libero Consorzio di Siracusa nella provincia aretusea. Infine, Castelvetrano e Petrosino in provincia di Trapani. Tutte le nove aree provinciali siciliane, sono dentro a questo poco lusinghiero elenco e ci sono centri d’ogni tipo (compreso il secondo capoluogo dell’Isola per popolazione – Catania – e il Libero consorzio di Siracusa): grandissimi, grandi, medi, piccoli, piccolissimi. C’è qualche nome che spicca, a parte Catania, ovviamente. Taormina, ad esempio, in default dichiarato dal luglio del 2021; o Noto, dissesto dichiarato il 25 ottobre del 2022. Due centri che sono poli turistici in Sicilia, in Italia e nel Mondo. Sono 11 i comuni siciliani, che hanno dichiarato dissesto in questo 2023 e fra di essi, anche un grosso centro come Barcellona Pozzo di Gotto e uno importante del Nisseno: Niscemi. Certo, 66 comuni in default su un totale di 391 in Sicilia sono davvero tanti. Troppi. Per qualcuno (come Chiaramonte Gulfi) la scelta di dichiarare fallimento nasce da nuove amministrazioni appena insediate che scelgono così di non impelagarsi in artifizi economico-finanziari per salvare la città dai “gua” di chi li ha preceduti e vanno per le spicce, dichiarando default, forti della maggioranza in consiglio (è il consesso, infatti, che certifica il dissesto proposto dalla giunta comunale). I più volenterosi fra gli enti locali sono quelli che vivono lo stato di un bilancio controllato dalla Corte dei Conti e osservano le rigide regole del Piano di Riequilibrio imposto dai giudici contabili. Interessante, per cercare di sviscerare le cause di un problema che mette la Sicilia al secondo posto in Italia – preceduta solo dalla Calabria – nella speciale classifica delle regioni con più enti in dissesto, l’analisi che, un paio di mesi fa, fece Michele Cappadona, presidente dell’AGCI che è l’Associazione Generale delle Cooperative Italiane. Cappadona ha spiegato che “tra le problematiche collegate alle difficoltà economiche e al dissesto dei comuni in Sicilia, le più rilevanti sono: la diminuzione dei trasferimenti regionali per la spesa corrente; la fortissima diminuzione dei trasferimenti statali a causa del federalismo fiscale; l’introduzione del fondo crediti di dubbia esigibilità”. I trasferimenti regionali erano una valvola di sfogo importante, se non fondamentale, per i bilanci dei comuni. Adesso i trasferimenti regionali di parte corrente sono diminuiti in Sicilia negli ultimi anni da circa 1 miliardo di euro a circa 330 milioni di euro. Il che significa casse locali poco pingui e dazio pagato in modo salato ad ogni spreco. Gli sprechi; ovvero il denaro pubblico utilizzato per raccattare consenso con tutta una serie di ‘elargizioni’ o interventi inutili che hanno prodotto voti e potere politico. Senza andare oltre (non è questo il luogo) lo sperpero di pubblico denaro, i bilanci forzati sono un problema che ancora c’è. Dunque, l’alto numeri di comuni siciliani in braghe di tela non stupisca. Peraltro, un bel po’, la metà più o meno, deve ancora approvare gli strumenti finanziari 2023, compresi i consuntivi scorsi. E questo, qualcosa, vorrà pur dire…