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Attualità

Il Derviscio di Bukhara, quel viaggio catartico verso l’Oriente

di Gabriele Bonafede -





Al Teatro Antico di Segesta Alberto Samonà ha portato ieri in scena la storia e le storie del sufismo rappresentate in olistico dialogo tra musica, testo e danze.

Non poteva esserci migliore palcoscenico per una rappresentazione che facesse emergere la storia e le storie del sufismo: il Teatro Antico di Segesta. Proprio perché archetipo della culla della civiltà occidentale la cui forza è ancora oggi quella di confrontarsi comunque con altre culture.

Una rappresentazione tutta spirituale dunque in un teatro classico antico tra i più belli che abbiamo in Sicilia. Sì, perché ascoltare la musica sufi mentre i dervisci ruotano in spirale mistica è già di per sé una esperienza unica. Ancor più unica se si accetta di essere trasportati su lande a noi sconosciute su un tappeto volante che ci fa volare avanti e indietro nel tempo e nello spazio.

Il Derviscio di Bukhara ideato e diretto da Alberto Samonà, con lui stesso in scena, ha il grande pregio di fermare il tempo e permettere al pubblico di ritrovarsi in un infinitesimo infinito presente, passato e futuro: lontano e vicino allo stesso tempo. Indubbiamente, la chiave più interessante dello spettacolo è proprio quella dell’ossimoro facilitato dal percorso mistico.

Quasi seimila chilometri separano Segesta da Bukhara in Uzbekistan. Ci vorrebbero cinquanta giorni di marcia continua per raggiungere la città uzbeka del sufismo, attraversando Italia meridionale, Grecia, Turchia, Iran, e Turkmenistan. Eppure, lo spettacolo di Samonà riesce a ridurre questa distanza attraverso racconti, melodie sufi, danze orientali concentrandola in una sola ora di trasporto ideale. Esattamente come se planassimo su un pezzo di globo terrestre poggiati su un tappeto volante capace di catturare panorami e catarsi, gesti e profumi, calma e trambusto di quel mondo, di quei mondi.

È pregevole anche la scelta di Samonà nel lasciare il proprio testo apparire in punta di piedi. Proprio come l’apparire del derviscio che incede in passo rituale e ritmato sulla scena, prima di librarsi nella danza roteante protesa verso l’ascetico accompagnato e sostenuto da musica sufi.

Il cuore dello Zikr, la preghiera sufi, sta tutta lì: nel saper concentrare la propria parola di preghiera all’interno del pensiero aperto. Tanto che può anche essere non cantata o declamata, ma solo pensata.

Il Derviscio di Bukhara riesce perfettamente a interpretare la spiritualità sufi, soprattutto nella sua dimensione di trasporto ascetico e culturale. Si ha così la sensazione che tutto lo spettacolo sia in effetti uno Zikr unico: olistico nelle sue parti recitate, cantate e danzate.

Eccellenti gli interpreti, a partire dal gruppo musicale Tito Rinesi & Ensemble Dargah (Piero Grassini, Flavio Spotti, Renè Rashid Scheier), cuore e polmone dello spettacolo che danno la forza per sostenere e spingere in volo quell’ideale tappeto planante, fulcro della storia di introspezione e insegnamento.

Coinvolgenti le interpretazioni attoriali di Stefania Blandeburgo e Davide Colnaghi. Componendo così la sostanza della storia di scoperta e riscoperta di sé stessi comunicata dal testo. Accattivanti le danze persiane di Grazia Cernuto, che traducono in dolcissimi gesti le storie declamate e cantate in ritmo sufi. Così che non è necessaria la traduzione della musica dalla lingua originale.

Catartica la danza della ballerina sufi Amal Oursana, sembra attrarre ed espandere l’energia della spirale aurea su una scena d’ippodamea concezione. Racchiudendo così il vero filo conduttore di tutto lo spettacolo: l’evocazione del mondo culturale d’Oriente in un teatro greco antico classico. Ovvero, il pregevole ossimoro concettuale e scenografico insieme realizzato dalla rappresentazione.

Derviscio di Bukhara